Mi chiamo Carlo Vivarelli, e avevo deciso già da molto tempo di proporre pubblicamente quello che scrivo. Adesso, grazie anche alle persone che lavorano nell’azienda alla quale ho commissionato queste pagine web, ho potuto realizzare ciò che per me è un’esigenza interiore. Le attuali tecnologie consentono di essere editori di se stessi e di proporsi agli altri senza filtri.
E credo che questa sia una libertà reale, effettiva, per persone come me fondamentale, perché il mio mezzo espressivo più importante è la scrittura. Al di là di essa, in verità, sono muto. E la decisione di avere un sito internet con il mio nome nel quale e dal quale proporre i miei scritti proviene dal fatto che credo che le mie parole esprimano qualcosa che sento essere utile, o gradevole da ascoltare, o che possa essere materiale col quale costruire qualcosa, o luce che chiarisca un qualcosa o che aiuti una dimensione a esprimersi che prima linguaggio non aveva.
Presunzione inevitabile, se si vuole proporre ciò che si è scritto.
Ricordo il tempo che mi facevano perdere, tutte le volte che facevo un tema a scuola, a fare poi la brutta copia, dopo che avevo scritto il tema direttamente in ciò che allora si chiamava la “bella” come fosse una ragazzina. Odiavo e odio perdere tempo, mi allontanava da tutto ciò che, ragazzina, è bellezza. Scrivevo direttamente nel foglio protocollo, senza errori, senza un ripensamento importante: avevo ritmo di elaborazione e padronanza del mezzo.
L’insegnante di turno, che non poteva nemmeno capire l’essenza stessa della scrittura, mi diceva che “si faceva così”, che “la brutta copia era necessaria” e che “dovevo farla”.
No, non si fa così. Non sempre, non per forza, non è una regola valida per tutti. E ciò che è brutto non è affatto necessario, non sempre, se non è un imperfezione o un errore in un cammino che porti a qualcosa.
Erano stupidi e invidiosi: io sapevo esprimermi e avevo qualcosa da comunicare: loro non so. Forse ho avuto sfortuna con gli insegnanti. Ma io vedevo il sangue che colava dalla loro bocca tremante che si era schiantata contro il muro di un linguaggio che non capivano. Eppure, il tema lo avevano dato loro.
Mi piacerebbe che le mie parole fossero utili a un gesto, a creare o cercare qualcosa di nuovo, o di antico, ma pieno di significato, o anche solo che fossero, appunto, utili, come uno strumento.
Le parole e le frasi sono strumenti: servono a fare qualcosa o a andare da qualche parte del mondo o del pensiero. Navi, le ho costruite con tutto il sapere, l’affetto, il bello che c’è in me. E da adesso, le lascio andare via. Non mi appartengono più.